Non ricordo molto della mia infanzia. Se potessi riassumerla in una diapositiva potrebbe essere questa: un bambino chiuso in una stanza a contemplare il soffitto, immerso nei suoi pensieri. Non ricordo eventi particolari che abbiano lasciato segni nel corso della mia esistenza. Tutto ciò che so è che amavo leggere e scrivere. Leggevo e scrivevo, scrivevo e leggevo. Appartenevo alla specie dei sognatori, quella sparuta minoranza che crede che la magia della vita sia racchiusa in un libro, tra le pieghe delle pagine. Leggevo di tutto, dai fumetti ai romanzi. Il primo libro in assoluto che lessi fu “Canto di Natale” di Charles Dickens. Seguirono le storie di Italo Calvino, Jules Verne e i racconti di Edgar Allan Poe.
Desideravo l’avventura, le emozioni forti, volevo emulare i miei beniamini che emergevano dalla carta stampata, viaggiavo con la fantasia senza aver bisogno di fare un solo passo. Respiravo parole che nutrivano la mia anima e che rendevano più rosee le mie giornate.
A otto anni scrissi il mio primo racconto. Lo feci per vincere una paura che mi stava attanagliando il cuore. Era una notte di pioggia, un temporale si era abbattuto sulla nostra casa e un vento impetuoso soffiava insistentemente, facendo tremare le finestre che sembravano volersi spalancare sotto la spinta di una potente e gigantesca mano. Fu così che all’improvviso, guidato dall’istinto, presi carta e penna e iniziai a scrivere. Narrai i sentimenti e le emozioni che stavo provando in una breve storia che descriveva il giardino davanti casa come lo stavo immaginando in quel momento. Il giardino era attraversato da uno stretto camminamento in pietra, che nella mia fantasia fanciullesca si tramutò in un fiume in piena. Il tetto del capannone che sorgeva ai confini dell’appezzamento di terreno mi appariva come il lucido guscio di un essere mostruoso e gigantesco, risvegliato dalla potenza delle intemperie che si erano abbattute sulla città. Lo scrosciare della pioggia riproduceva il rumore delle sue orride zampe, sottili come rami, che trascinavano l’enorme corpo sferico le cui fauci lucenti brillavano quando il cielo risplendeva per un lampo che, veloce come il tuono che lo seguiva, faceva luccicare le gocce d’acqua che piovevano dal cielo, creando un caleidoscopio di colori affascinante ed orribile allo stesso tempo. Con la testa nascosta sotto le coperte, armato di una pila, penna e foglio, trascorsi tutta la notte a buttare giù quella storia. Le diedi il titolo “la tempesta”, come l’opera di Shakespeare, che io ovviamente non conoscevo e non avevo ancora letto. Anni dopo, trovandomi tra le mani un tomo che raccoglieva le opere del poeta inglese, mi ritrovai davanti ad una pagina che riportava, in cima, a caratteri cubitali, lo stesso titolo del mio primo racconto. Mi ritornò in mente quell’episodio fanciullesco e risi pensando che c’era qualcosa che ci accomunava. Quella sorgente sotterranea a cui tutti gli scrittori attingono, aveva trovato in quell’elemento atmosferico l’espediente per iniziare a narrare. Shakespeare ci aveva tirato fuori uno dei suoi capolavori, a me aveva dato l’occasione per cimentarmi per la prima volta con la scrittura.
Scrissi tanto. A quell’episodio ne seguirono altri. Raccolsi tutti i miei racconti in un quaderno andato poi perduto, che ebbi l’occasione di rileggere per l’ultima volta pochi anni fa, prima che venisse sistemato in uno scatolone durante uno dei tanti traslochi che hanno caratterizzato la mia vita. Mi commossi pensando che in quelle righe c’era la traccia della mia vita fino a quel momento, le paure, i sogni, ma anche le delusioni. Pensai che se qualcuno avesse ritrovato quel libricino tra mille anni avrebbe potuto saperne più su di me che la persona che ritenesse di conoscermi meglio. Neanche mia madre, o il mio migliore amico, avevano accesso ai segreti del mio animo, a cui potevano attingere solo le pagine su cui avevo riversato quei fiumi di parole. Mi colpì, tra tutti, un racconto che si chiamava “dialogo con un cane”, in cui immaginavo di incontrare un randagio ai piedi di un ponte crollato. Sembrava mi aspettasse, e si accucciò accanto a me, che osservavo sconsolato le macerie causate dal crollo. Inizia un dialogo con cui affrontiamo gli argomenti più disparati, il cane mi dà delle risposte illuminanti, neanche fosse un vecchio saggio. Mi parla di senso della vita, dell’affannosa ricerca di un significato che possa riempire le giornate concludendo che il significato è nella vita in sé, e solo accettandola per ciò che è potevo smettere di affannarmi e godere di ciò che avevo. “La ricerca non ti fa vedere ciò che hai. Fermati, respira e osserva. Troverai la risposta, e sarà come se avessi tolto una benda dai tuoi occhi dopo molti anni” dice infine il cane. Così si conclude il racconto. Segue l’indicazione della data della sua stesura: non ricordo il giorno e il mese, ma l’anno sì. Era il 1999. Vuol dire che avevo diciassette anni. Rimasi stupito della maturità e profondità di ciò che avevo scritto. “Sono stato proprio io a realizzarlo?” mi chiesi. Lì mi fu chiaro quale fosse l’immenso potere della scrittura. Tante anime attraversano il nostro corpo nel corso di un’unica esistenza, anime che hanno tanto da dire e talvolta non sanno come farlo. Una di queste sparisce e un’altra prende il suo posto e talvolta succede che se ne vada senza che abbia lasciato una traccia del suo passaggio. Così ce ne dimentichiamo, può darsi che il suo messaggio potesse tornarci utile in un’altra fase della nostra vita ma ormai è tardi, non ci è più concesso accedere al suo messaggio perché lei non c’è più. Sparita, volatilizzata. A meno che…
E se il senso della scrittura fosse proprio questo? Rallentare lo scorrere del tempo, cristallizzare un pensiero fugace, una storia, che ha un messaggio per noi o magari per le persone che leggeranno il nostro scritto? Il nostro mondo interiore è fatto di pensieri, sentimenti, emozioni, ricordi, immagini. Attimi mutevoli che cambiano, svaniscono, a volte ritornano, altre volte si sostituiscono a vicenda. Se rimangono in astratto, saranno destinati a svanire come lacrime nella pioggia, citando Roy Betty di Blade Runner. Se li fissiamo diverranno parte di una storia senza fine, un frammento di eterno che continuerà a riecheggiare anche quando l’anima che l’ha generato non ci sarà più. Anche quando saremo svaniti da questo mondo. E’ forse questo il senso ultimo della vita, no? Cos’altro può voler dire se no “lasciare un segno del nostro passaggio in questo mondo?”
Forte di queste convinzioni ho continuato a coltivare la mia passione per la scrittura. Ho pubblicato innumerevoli romanzi, scritto decine di racconti, finché ho iniziato anche ad insegnare agli altri come fare lo stesso. Dopo aver studiato la materia per oltre dieci anni sono diventato docente di scrittura creativa, ho avuto innumerevoli allievi a cui ho trasmesso il mio amore per la scrittura.
Questo sono io un sognatore, con la penna in mano.
Un giorno tu ti sveglierai e vedrai una bella giornata. Ci sarà il sole, e tutto sarà nuovo, cambiato, limpido. Quello che prima ti sembrava impossibile diventerà semplice, normale. Non ci credi? Io sono sicuro. E presto. Anche domani.Fëdor Dostoevskij
Alla scoperta dell'autore
Scrittrici/scrittori preferit*
Fëdor Dostoevskij
Libro che ti ha cambiato la vita
Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij
Come sei arrivato alla scrittura
Ho iniziato a scrivere per necessità. Sentivo che era l’attività più consona al mio essere.
Come funziona il tuo processo di scrittura
Ho un mio metodo di scrittura, che è quello che poi insegno ai miei corsi di scrittura creativa. Consiste nell’utilizzo dei sensi come espediente per fare emergere la creatività. Prima di iniziare a scrivere svolgo degli esercizi sensoriali che mi facciano scendere in uno stato di concentrazione che sfrutterò poi per attingere al mondo delle idee.
Perché sei atterrato sul Comodeeno
Sono venuto a conoscenza di Comodeeno tramite i social. Ho visto un post, ho visitato il sito e mi è sembrato un progetto interessante.